sabato 9 gennaio 2010

Recensione Dark Ride (USA 2006)


Regia: Craig Singer

Sceneggiatura: Craig Singer, Robert Dean Klein

Cast: Jamie-Lynn Sigler, Patrick Renna, David Clayton Rogers, Alex Solowitz, Andrea Bogart

Disponibilità italiana: Dvd Import
Dark Ride è un tunnel dell'orrore divenuto celebre non tanto per la qualità dell'attrazione, bensì per il numero di morti inspiegabili avvenute durante i periodi della sua attività. Affascinati dal mistero che emana il posto, una combriccola di studenti, in occasione delle vacanze primaverili, lo inserisce come tappa del proprio itinerario di piacere, inconsapevole che ogni leggenda non è tale se non ha il suo bel fondo di verità.


Dallo stesso regista di Perkins 14, Dark Ride fu uno dei primi titoli ad essere distribuiti della After Dark Films il cui rinomato festival della durata di una settimana debuttò proprio nel 2006. Disprezzato con accanimento dagli opinionisti americani, che nei loro responsi appaiono sempre più condizionati dalle illusioni indotte dalla truculenta grafica delle locandine, il film di Singer è sì mediocre ma per un motivo particolare: per il suo rifiuto di affrontare decorosamente le perdizioni della psiche umana, trovando molto più attraente un approccio spaccone e istintuale, probabile distintivo della superficialità del suo ideatore. Nonostante l'avvilente stratagemma di travestire una funzionale rivelazione psicologica sottoforma di stravolgimento finale, la pellicola vince però nella contesa con il più recente e diretto concorrente, tale House of Fears del 2007 dal risultato più blando e insoddisfacente.

Strano a dirsi ma lo scenario offerto dai parchi del terrore non sembra essere uno dei luoghi più prediletti dal cinema di genere, forse perchè troppo esplicito nel suo scopo di incutere paura oppure semplicemente perchè attraverso lo schermo l'esperienza di addentrarsi in cunicoli addobbati con i più svariati ammennicoli perde parecchio del suo effetto originario. Il mancato sfruttamento di questo tema ci costringe a risalire al 1981 e citare nuovamente Funhouse, l'opera di Hooper dalle analoghe premesse: giovani clandestini in un regno proibito (almeno per i più fifoni) di macchinari e cartapesta, vittime, più che della loro inquietitudine , della lama dello schizzoide particolarmente bravo nel dare vita alle rappresentazioni di morte suggerite dal posto. Se non altro la pochezza di esemplari sopracitata rende meno trascurabile e più apprezzabile il notevole lavoro di ricostruzione dei macabri interni tanto che la telecamera a volte risulta inefficace nel farci cogliere tutti i particolari del repellente arredo. A questo proposito il riuscito prologo serve proprio da visita guidata nei meandri di questo labirinto colmo di trucchetti dal facile spavento.

La stessa sequenza introduttiva, vero fulcro del film, insieme all'epilogo costituiscono le due solide colonne portanti di un altrimenti pericolante ponte fatto di irritanti bisticci, contrasti caratteriali, fissazioni, scherni e sfide reciproche tra collegiali interpretati da "finti" giovani attori. Tutti questi screzi non aiutano una sceneggiatura già di per sè amalgamata male in cui tutte le componenti sono unite rigidamente a mò di abaco, sensazione che arriva anche dalla claudicante gestione dei tempi narrativi dalle inesplicabili pause di riflessione nei momenti in teoria più concitati. Possa servire da esempio il fatto che i protagonisti, una volta entrati nella "tana" del killer dal volto coperto, si mettono comodi e iniziano a raccontarsi aneddoti sugli omicidi avvenuti in passato sul posto, ciò che in parole povere si traduce nella morte di ogni accenno di tensione. Dopo aver constatato la presenza di questo cumulo di imperfezioni, si rimane nel dubbio se gli autori abbiano intenzionalmente celato le implicazioni introspettive per riservare più sorprese possibili allo spettatore oppure se tale effetto sia stato più il frutto di una loro grave dimenticanza.

Per essere meno vaghi sugli effettivi contenuti della pellicola sappiate che ad attendervi c'è l'usuale furgoncino, logorato mezzo di trasporto per compagnie nullafacenti, che qui viene usato come scusa per citare niente di meno che La casa dei mille corpi di Rob Zombie nella scena del raccatto di un' autostoppista sventola, il cui stralunato discorso sulla musica rimane tra i migliori segmenti della pellicola. A sua volta però Dark Ride sembra essere stato una fonte di ispirazione per l'aspetto del mostro di The hills run red per l'uso di una maschera raffigurante il viso di un neonato.
Nulla di rimarchevole da segnalare invece sul versante splatter, fine a sè stesso e dallo stile barocco e confusionario come il regista ci avrebbe abituato in seguito.
L'andazzo qualitativo a questo punto non lascia più dubbi: ogni pregio che con fatica si riesce a scovare viene inevitabilmente accompagnato dalla sua prevalente pecca come la sparizione di un ruolo cardine per ben mezz'ora di tempo, la carenza caratteriale dei personaggi, o peggio ancora il citazionismo forzato per dare l'impressione di horror acculturato. E pensare che le motivazioni che spingono gli studenti ad entrare in questa casa psichedelica non sono così lievi come si lasciava intendere inizialmente.
In conclusione Singer fa il suo esordio nel genere con una pellicola discontinua, poco ragionata e presuntuosa nel volerci indicare gli ingredienti fondamentali che decretano la riuscita di una storia. Si era parlato di un sequel che per il momento rimane fermo sulla carta: per fortuna concedere il beneficio del dubbio ad un progetto rischioso non costa niente.

Giudizio finale: 5,5

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